martedì 20 agosto 2013

Compassione. Sguardi diversificati di questo sentimento




La compassione da sempre è stata guardata in modo diverso a seconda di chi se ne occupava e della disciplina che rappresentava. Questa la tesi del libro di Antonio Prete, il quale delinea un percorso che vede impegnati su questo tema filosofi, scrittori, teologi e altre figure della cultura mondiale.
Ciò che più mi affascina è la diversità di approccio a questo sentimento. 
Solitamente i filosofi hanno affrontato la compassione dal punto di vista di chi compatisce, del compassionevole. In questo senso, l'altro è tale grazie all'io che a lui si approccia, in uno scambio che prende le mosse da una presa di coscienza di chi la compassione offre. Lo sguardo si posa su chi soffre ed ecco che inizia la relazione, quel movimento tra l'io e l'altro che comunicano con le parole e con i gesti.
In altri contesti, invece, come ad esempio il teatro, la compassione viene rappresentata prendendo come punto di partenza la posizione di chi necessita di essa, di chi soffre. Ecco il capovolgimento dei ruoli, la destabilizzazione, anche, che questo comporta, lo sguardo nuovo che ridefinisce i contorni e le caratteristiche della relazione tra chi ha bisogno di compassione e chi dovrebbe (il condizionale in questo caso è d'obbligo) offrirla.
A questo punto, allora, la riflessione si potrebbe spostare sulle risposte che vengono offerte ai due modi differenti di approccio. Nel primo caso, chi è in stato di sofferenza dovrebbe accettare di buon grado l'aiuto che gli viene offerto. Ma nel secondo caso, a mio avviso, la relazione si complica. Si parte, infatti, da una richiesta di aiuto e questa non è certo che possa trovare una positiva risposta. Qui l'aiuto non viene gratuitamente offerto, ma viene richiesto e questo potrebbe incontrare delle resistenze in chi quell'aiuto dovrebbe offrire.
Insomma, ho l'impressione che la questione non sia di poco conto, poiché dal differente punto di partenza dipende gran parte della risposta che ne deriverà.
Quale dei due sguardi è più veritiero? In fondo, il teatro, così come il cinema, è l'arte della verosimiglianza...


venerdì 2 agosto 2013

Amore e desiderio



L'amore porta con sè, costitutivamente, una distanza. Amore senza distanza non sarebbe amore, perché non avrebbe unità, vale a dire oggetto.
In questo consiste la sua differenza fondamentale dal desiderio: nel desiderio non vi è un vero e proprio oggetto, perché ciò che viene desiderato non risiede in se stesso, non viene tollerato quel suo racchiudersi in sé che già la poesia aveva realizzato per proprio conto.
Il desiderio consuma ciò che tocca; nel possesso, l'oggetto del desiderio viene annientato, dal momento che non ha alcuna indipendenza e non ha esistenza all'infuori del desiderio stesso. L'irraggiungibilità dell'oggetto d'amore lo rende incessantemente presente.
 
                                       M. Zambrano, Filosofia e poesia, Pendragon 2010, p. 86. 
 
 

mercoledì 6 marzo 2013

A qualcuno devi dare amore

 
  
Questa volta non pubblico qualcosa di personale, ma una poesia di Ivan Minatti, poeta sloveno scomparso lo scorso giugno.
Attraverso le sue parole credo si possa racchiudere il significato di un'intera vita, di come la possiamo spendere, di come dovremmo trascorrerla.
Ogni altro commento è superfluo. Buona lettura.
 
 
A qualcuno devi dare amore
A qualcuno devi dare amore,
che sia erba, fiume, albero o sasso,
a qualcuno devi appoggiare la mano sulla spalla
perché, affamata, si sazi del contatto,
a qualcuno devi, devi,
è come il pane, come un sorso d’acqua,
devi dare le tue bianche nuvole,
i tuoi temerari uccelli di sogno,
i tuoi timidi uccelli d’impotenza
- ma da qualche parte per loro deve
esserci un nido di pace e tenerezza -,
a qualcuno devi dare amore,
che sia erba, fiume, albero o sasso
perché gli alberi e l’erba sanno della solitudine
- i passi vanno sempre lontano
anche se per un attimo si fermano -,
perché il fiume sa della tristezza
- solo che si inchini alla sua profondità -,
perché il sasso conosce il dolore
- quanti piedi pesanti
sono già passati sul suo muto cuore -,
a qualcuno devi dare amore,
a qualcuno devi dare amore,
con qualcuno devi metterti al passo,
stare nella stessa orma -
o erba, fiume, sasso, albero,
silenziosi compagni di viaggio di solitari e stravaganti,
buoni, grandi esseri
che parlano solo
quando le persone restano in silenzio.



                                                     Ivan Minatti


lunedì 15 ottobre 2012

Scuola alla deriva



In queste settimane, sempre più spesso mi capita di parlare con genitori di ragazzi che frequentano scuole elementari e medie. 
Il denominatore comune di queste conversazioni è la generale insoddisfazione relativa alla qualità degli insegnamenti forniti. Programmi che fanno acqua da tutte le parti, corpo insegnante frustrato, finanziamenti pubblici che arrivano col contagocce: sembra essere questa la miscela esplosiva che sta falcendo saltare ogni tipo di intervento educativo a favore dei più giovani.
Ecco, allora, che le famiglie si trovano a sopperire a tali mancanze con interventi privati: chi può, si rimbocca le maniche e, da genitore, assume le vesti di maestro, di professore part-time, diventando esperto di italiano, storia, geografia, matematica, geometria, ecc. in base alle esigenze dettate dal programma scolastico. Altri, invece, si affidano ad insegnanti esterni per le lezioni di sostegno, iniziativa sicuramente più "professionale" anche se costosa e gravante sui già magri bilanci familiari.
In tutto questo, coloro che ne fanno le spese sono i ragazzi e la loro cultura: insegnamenti farraginosi e figure poco propense ad invogliare allo studio li fanno disamorare alla bellezza del conoscere. Lo studio non è più una conquista personale, un mezzo per affermarsi pensando con la propria testa, ma un peso da trascinare giorno dopo giorno, con l'unico scopo di arrivare a quel fatidico "6" in pagella che permette di proseguire il percorso scolastico tra noia ed inquietudine.
Cosa si può fare, allora, per evitare che questa situazione impoverisca sempre di più le menti dei più giovani? Sicuramente poco si può incidere a livello di politica nazionale, dove è evidente che i problemi della scuola non sono la priorità. L'unico luogo, allora, dal quale partire è la scuola stessa, proprio quella frequentata dai nostri ragazzi. Un confronto sereno, pacato ma franco tra corpo insegnante, dirigente scolastico e famiglie diventa fondamentale per ridefinire i ruoli di ciascuno. E l'ottica di questi incontri non deve essere quello della polemica fine a se stessa o quella di un piagnisteo sterile e infruttuoso. La priorità, invece, deve essere data al benessere dei giovani, alla loro crescita, prima di tutto umana, poi culturale. Solo laddove lo studente si sentirà accolto dagli insegnanti così come è accolto dai genitori, potrà esserci vera crescita culturale. Solamente in un ambiente dove l'amore, l'affetto, regnano sovrani ci saranno le condizioni fondamentali per iniziare a fondare le basi di una cultura che sarà, prima di tutto, cultura dell'accoglienza, dell'amore. Tutto ciò che riguarderà l'italiano, la storia, la geografia, ecc. arriverà successivamente e sarà parte, comunque, di una relazione umana e non solamente di una sterile situazione educativa tra un professore e un allievo.

venerdì 21 settembre 2012

L'illusione del controllo totale



Sempre più spesso sento parlare di controllo, di auto-controllo sulla propria vita nei vari aspetti che la compongono, allo scopo di migliorare l'esistenza e di poter così vivere giorni più ricchi, più felici. 
Quasi che la felicità passasse solamente attraverso quella che personalmente considero l'illusione del controllo totale.
Credo che dietro a questa illusione, ci sia una paura atroce dell'altro; non solo dell'altro che si approccia a me, ma anche (e soprattutto) dell'Altro che abita in noi stessi, a volte così sconosciuto proprio perchè mai gli si è dato voce, mai lo si è ascoltato veramente.
Secondo alcuni, solamente attraverso il controllo totale del corpo, del linguaggio, delle emozioni, del tempo si può vivere veramente nel mondo contemporaneo. Eppure, più si cerca di controllare tutto, più tutto sfugge irrimediabilmente, come sabbia tra le dita, per dirla con un'immagine poetica.
E che dire dell'alterità? Anche qui vale lo stesso concetto: più si cerca di cancellarla, per evitare la paura dell'ignoto che a essa è connaturata, più questa si impone, emerge. 
Ed ecco, allora, che più il tempo passa, più aumenta l'intolleranza verso chi è portatore di quell'alterità. Che poi è ognuno di noi, perchè tutti siamo altro per l'altro. 
E, assieme all'intolleranza, nasce anche la necessità di controllare la paura, caratteristica magistralmente sfruttata da responsabili politici in Italia, in Francia e negli Stati Uniti, probabilmente memori di ciò che ebbe a dire Machiavelli quando scriveva che la vera arma del Principe è la paura, perchè solo colui che è capace di controllare la paura degli altri diventa poi <<signore della loro anima>>.
Ciò che veramente disturba nel mondo contemporaneo è la differenza, perchè essa mette in crisi tutti i tentativi di omologazione. Ecco perchè si tende a voler controllare tutto: per appiattire ogni cosa, per sentirla più uguale a noi stessi, alla cultura a cui apparteniamo.
Ma quale sarà, poi, la cultura più valida che può permettersi una tale operazione? Io credo nessuna.

giovedì 20 settembre 2012

Fare i conti con le nostre ferite



In uno dei suoi ultimi libri, dal titolo "Cosa fare delle nostre ferite? La fiducia e l'accettazione dell'altro" edizioni Erickson, Michela Marzano ci regala ancora una volta sassolini di riflessione sul mondo contemporaneo e sulle sue distorsioni.
Ciò che mi ha particolarmente colpito, è come sia diventato prioritario mostrare al mondo la padronanza di se stessi, poichè sembra che solo attraverso di essa si possa dire di essere autonomi e indipendenti. E questa padronanza di se stessi passa attraverso il controllo del corpo, attraverso la sua cura ossessiva, imbrigliandolo in schemi affinchè possa essere dimenticato.
La corporeità, insomma, è la misura di quanto un soggetto sia socialmente "riuscito"; non più il pensiero, la capacità critica. Il corpo, che è limite, costituisce il vero terreno di battaglia contemporaneo: rifiutandolo per ciò che è, cercando di modificarlo continuamente e di farlo diventare il più possibile simile ad altri corpi. E tutto questo "non si effettua più in nome della verità o della virtù, bensì in nome del potere e della libertà". Lo scopo finale di questa operazione è liberarsi della finitudine, non essere più obbligati ad ascoltare le costrizioni, le debolezze del corpo.
Ma in tutto questo controllo ossessivo di ciò che appare, viene lasciato in secondo piano, viene dimenticato, ciò che l'uomo è. E in ciò, vengono dimenticate anche le ferite, che come in passato, altrettanto oggi sono ben presenti all'interno di ciascuno, in misura più o meno consistente.
Sembra che queste debbano essere cancellate il più in fretta possibile, rifiutate dal soggetto stesso che le porta, pena l'esclusione sociale. 
Ma che società è quella che non riesce ad accettare "la vulnerabilità degli esseri umani? Perchè è così difficile riuscire a <<fare qualcosa>> delle nostre ferite?"
Si può veramente comprendere una persona senza considerare le sue fragilità, i suoi limiti? E' davvero un bene voler dimenticare la dimensione della finitudine per apparire sempre forti e pienamente in grado di auto-controllarsi?

mercoledì 16 maggio 2012

La misura inefficace

 

In un articolo dal titolo "Eugenetica e misurazione", apparso sul sito "Doppiozero.com" a firma di Pietro Barbetta - http://doppiozero.com/rubriche/336/201205/eugenetica-e-misurazione - l'autore si pone una domanda a mio avviso piuttosto importante: "Cosa si nasconde dietro le linee guida per la valutazione scientifica?"
Si parla, in particolare, della misura del quoziente intellettivo che, secondo l'autore, fa parte di quegli "strumenti che, per Herrnstein, dimostrerebbero che in una società aperta lo status si acquisisce in base al merito (e che) sono stati usati per anni come mezzi dominanti per definire le posizioni sociali degli individui. Sono cioè stati esattamente i mezzi principali di ascrizione di uno status militare, lavorativo, di cittadinanza, scolastico e persino genitoriale."
Insomma, sembra piuttosto chiaro che qualsiasi mezzo matematico che voglia "misurare" l'uomo, non soddisfa appieno questo sua funzione. Sicuramente può definirne l'altezza, il peso, la massa corporea, la pressione sanguigna, ma mai potrà dire quali sono le emozioni che abitano l'anima, quali i sentimenti, i sapori, i profumi che ciascuno di noi sente.
Ho l'impressione che sempre più spesso, invece, si voglia definire l'uomo usando strumenti, piuttosto che sentimenti: sarà l'effetto di questa società sempre più tecnologica, dove tutto ciò che è numero, tutto ciò che è formula precisa, fredda, pone meno problemi e fa risparmiare un sacco di tempo. Ma a me è proprio questo ciò che fa paura, la freddezza con cui si guarda all'umano, che non è più "troppo umano", purtroppo, ma al contrario, troppo distaccato dal sentire, dal sentimento.
Cosa diremo, allora? Che amiamo qualcuno 20 metri? Che gli vogliamo un kilo di bene? Che lo odiamo 10 ettolitri? 
Noto sempre più spesso che anche i bambini, (solitamente più aperti, più puri, meno legati al pensiero "questo non si dovrebbe dire così spudoratamente"), fanno fatica ad usare le parole dei sentimenti; si vergognano, quasi, a dire "ti voglio bene", e se lo dicono lo fanno sottovoce, timorosi di essere scoperti. E poichè i bambini sono lo specchio dei genitori, questo la dice lunga su quali siano i rapporti "d'affetto" che vivono nelle nostre famiglie. 
Ma è proprio così difficile lasciarsi andare a manifestazioni serene di ciò che proviamo dentro? E' proprio così sconveniente? O non è forse più pericoloso creare una società asettica, dove ognuno calcola perfettamente il proprio futuro senza preoccuparsi nemmeno un istante della persona che quotidianamente gli sta accanto? Una società sentimentalmente asfittica è proprio quella che vogliamo?